martedì 31 gennaio 2012

Un concetto insolito


La spiegazione dell'equilibrio di Nash che ho illustrato sotto con l'esempio della ragazza non è poi così banale come potrebbe sembrare a prima vista; credo che ognuno di noi, inconsciamente, applichi un suo concetto di "equilibrio" nelle faccende relative alle sensazioni e ai sentimenti.
Mi piacerebbe raccogliere commenti a proposito!
 
La Teoria dei Giochi è la scienza matematica che analizza situazioni di conflitto 
e ne ricerca soluzioni competitive e cooperative.
Essa ha molteplici applicazioni,anche se non è sempre 
la soluzione migliore(o se preferite realistica da applicare ad un problema).
Un esempio lo si trova nel film "a beautiful mind" :
Nel locale entra una ragazza molto bella insieme ad altre
quattro, meno belle ma certo non disprezzabili. Uno del gruppo lancia
la competizione per la conquista della più bella, e tutti sembrano
accettare. Ma Nash obietta che così le cose probabilmente andranno
assai male: dopo essere stata corteggiata da tutti, lei 
potrebbe non concedersi a nessuno. Tutti allora ripiegherebbero sulle
amiche, ma queste, ferite nell'orgoglio per essere state considerate
di seconda scelta, si dileguerebbero. In questa e in molte altre 
situazioni è molto più razionale cooperare che competere. Dunque è 
meglio trascurare del tutto la più bella e concentrarsi subito ognuno
su una delle altre. Eureka! Ecco la scintilla per trasformare tutto
ciò in un bel teorema matematico, e passare alla storia 
con quello che verrà chiamato "equilibrio di Nash".

Una brutta, brutta bestia


Breuler:"... attenuatasi la dolorosa disperazione sulla propria disgrazia, riasciugate le lacrime, quando il peggio sembra superato, lo sventurato si ritrova come impietrito, non ha più gli interessi di prima, niente più lo può rallegrare e avvincere, i familiari gli sono indifferenti, la vita ha perduto ogni attrazione, le percezioni hanno perso rilievo e plasticità."

domenica 29 gennaio 2012

Tendere la mano



"Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo".

(Lettera agli Ebrei - 13, 2)

mercoledì 25 gennaio 2012

Pensiero


Nel profondo del cuore
di un fanciullo
riesco a sorridere
ma non posso andarci.

- George Bernanos -

giovedì 19 gennaio 2012

Alcuni pensieri, forse divergenti


Mi piace confrontarmi con temi inerenti i massimi sistemi, con concetti e ragionamenti che mettano in dubbio la realtà che ci circonda così come la conosciamo.
Lo spunto per dissertazioni del genere, potrebbe essere una sorpresa, non nasce sempre dalla filosofia o da qualsivoglia dottrina umanistica.
Talvolta è la scienza stessa a essere capace di portarci ad astrazioni ancora più fantasiose di quelle che potrebbe indurci, per esempio, la poesia.

La geometria di Riemann, la concezione eliocentrica di Galileo piuttosto che la relatività di Einstein sono esempi lampanti di casi del genere.

Riporto di seguito un interessante contributo scientifico di Carlo Rovelli che mostra come sia possibile mettere in dubbio l'esistenza di uno dei concetti che più ci permeano: il tempo.

Credo che gli spunti di riflessione non mancheranno.

La crescita della conoscenza scientifica rimette spesso in discussione le evidenze che ci appaiono più ovvie. In passato ci ha insegnato che il cielo non sta solo sopra la nostra testa ma anche sotto i nostri piedi, e che la solida Terra su cui camminiamo non è ferma, ma sfreccia nello spazio. Man mano che impariamo di più sul mondo, ci rendiamo conto che idee anche radicate sono spesso illusioni dovute alla limitatezza della nostra esperienza. Nel Novecento, questa evoluzione della nostra immagine del mondo ha toccato la nostra intuizione del tempo. Abbiamo imparato che il tempo non passa alla stessa velocità per tutti: due compagni di scuola rimangono coetanei solo se restano accanto; altrimenti quando si rincontrano non hanno più la stessa età. Il tempo, per esempio, passa più velocemente in montagna che in pianura. Se nessuna coppia di compagni di scuola ha ancora fatto l'esperienza di ritrovarsi con età diverse, è solo perché le differenze di invecchiamento sono piccole. Ma oggi abbiamo orologi precisi con cui questa variabilità dello scorrere del tempo si misura facilmente. Per la precisione, mentre a Genova, sul mare, passa un'ora, all'Aquila, 700 metri più in alto, passa un'ora e un milionesimo di secondo. Poco per avere effetto sulla nostra vita quotidiana, ma sufficiente per mostrarci che la concezione di un tempo che scorre uniformemente eguale per tutti è solo un'approssimazione dovuta all'imprecisione delle nostre percezioni.  Fin qui siamo nell'ambito della fisica ben conosciuta: la dipendenza del tempo dall'altitudine, per esempio, è un effetto ben compreso, descritto dalla teoria della relatività generale, la più bella delle teorie di Einstein, e la teoria che ci fornisce il migliore quadro concettuale, oggi, per pensare allo spazio e al tempo. L'effetto è stato misurato molte volte, e deve essere tenuto in conto nelle applicazioni tecnologiche: i sistemi Gps non funzionerebbero se non tenessero conto del fatto che gli orologi sui satelliti vanno più veloci di quelli a Terra. Siamo quindi nell'ambito di una scienza forse ancora poco conosciuta dal largo pubblico, ma da tempo scontata per gli addetti ai lavori. Ma la sete di conoscere non si ferma, la ricerca continua. Se c'è una cosa che sappiamo con certezza, è che le cose che ancora non sappiamo sono molte. Ci sono problemi aperti nella nostra conoscenza del mondo fisico elementare che ci indicano che molto di essenziale ci sfugge ancora, e le nostre idee hanno ancora bisogno di sostanziali revisioni. Uno dei problemi aperti di maggiore portata è il problema della gravità quantistica, che nasce dal fatto che la teoria della relatività generale, cui ho accennato sopra, trascura l'altra scoperta fondamentale della fisica del Novecento: la natura quantistica, cioè granulare e probabilistica, della materia e della radiazione. Quello che ancora non comprendiamo, e su cui una parte importante della ricerca teorica attuale si sta concentrando, è la minuta struttura quantistica, granulare, probabilistica, che deve avere lo spazio stesso. Nell'ambito di questa ricerca, si è affacciata un'idea a prima vista vertiginosa: forse il tempo "non esiste". L'idea è apparsa per la prima volta nel 1967, in un articolo del fisico americano Bryce DeWitt, scomparso da poco. Combinando relatività generale e teoria quantistica, DeWitt riesce a derivare l'abbozzo di un'equazione capace di descrivere le proprietà quantistiche dello spazio, ma nell'equazione è sparita del tutto la variabile t, il tempo. La matematica sembra indicare che per descrivere il mondo a livello elementare, non dobbiamo usare la nozione di tempo. Ma cosa significa? Fino a oggi, tutte le nostre equazioni descrivono lo svolgersi dei fenomeni nel tempo. Facciamo un passo indietro: cosa intendiamo in fisica quando parliamo di tempo? Per sapere l'ora, cioè misurare il tempo, possiamo guardare la posizione del Sole nel cielo. Per avere più precisione, guardiamo un orologio. La posizione delle lancette del mio orologio indica il tempo che è passato. Ma come faccio a sapere se il mio orologio misura davvero il tempo "vero"? Beh, lo posso controllare con l'ora esatta diramata da un centro ufficiale, dove c'è un orologio molto preciso. Ma come faccio a sapere se quell'orologio misura il tempo "vero"? Lo confronto con un altro orologio ancora... È chiaro che c'è un problema. Tutto quello che noi osserviamo sono lancette di orologi, oggetti che si muovono, la posizione del Sole nel cielo... Non vediamo mai "il vero tempo". Vediamo solo oggetti che si muovono. Newton, il padre della fisica, ha compreso tutto ciò con grande chiarezza, scrivendo che l'esistenza di una variabile "tempo" è solo un'ipotesi, che mette ordine nelle nostre osservazioni sui movimenti degli oggetti. Osserviamo dove si trova un oggetto quando un altro è in un certo luogo («quando le lancette del mio orologio sono sulla verticale, il Sole è a Sud»), e per convenienza, immaginiamo una variabile fisica "t" che ordini tutto questo («al tempo t=12:00, le lancette del mio orologio sono sulla verticale e il Sole è a Sud»), ma ciò che osserviamo sono solo posizioni di oggetti, non il tempo in sé. Prendendo sul serio questa osservazione, è chiaro che in linea di principio potremmo fare a meno di parlare di tempo, e parlare sempre e solo della posizione del Sole nel cielo o della posizione delle lancette di ciascun orologio. Scomodo, ma possibile. Quello che DeWitt ha implicitamente scoperto nello scrivere la sua equazione senza tempo è che questa procedura - descrivere il mondo dando l'evoluzione delle variabili una rispetto all'altra, invece che rispetto al tempo - diventa necessaria, nel microcosmo. Il motivo intuitivo è che la natura quantistica delle variabili le porta a fluttuare (oscillare) tutte in maniera indipendente, cosicché non possiamo più immaginarle tutte danzare al ritmo unico di una sola variabile tempo. L'ipotesi che esista un tempo al ritmo del quale danza l'universo, non è un'ipotesi corretta. A piccola scala l'universo è un insieme di variabili che danzano ciascuna con le vicine, senza nessun tempo che ordini le danze. Facile da capire? No. La concezione usuale del tempo è radicata nella nostra esperienza quotidiana e ingranata nella nostra struttura concettuale. Ma difficile non vuole dire impossibile: la difficoltà di concepire un mondo senza tempo non è diversa dalla difficoltà che hanno avuto i nostri nonni a immaginare la Terra sferica e gli abitanti degli antipodi a testa in giù: la difficoltà è accettare che la nostra esperienza del mondo, dove alto e basso sono gli stessi per tutti, e il tempo scorre uniforme, è limitata. Aveva ragione Kant a osservare che tempo e spazio più che essere nella natura sono forme del nostro modo di conoscerla; ma aveva probabilmente torto a concluderne che tali forme fossero immutabili: le forme stesse del nostro conoscere crescono con la conoscenza.




mercoledì 11 gennaio 2012

Poeti e vita


Dopo intense e proficue discussioni con Lavinia Pucci e Sunghia, da qualche giorno questa frase di Shelley mi è restata in testa.
I libri e la letteratura in genere ci possono salvare la vita, o rendere più salde le nostre ali.
Quando i nostri ideali diventeranno anche i legislatori della nostra vita avremo forse realizzato un'utopia bellissima.


I poeti sono specchi
delle gigantesche ombre
che l'avvenire getta sul presente.
Forza che non è mossa
ma che muove.
I poeti sono i non riconosciuti
legislatori del mondo.

Percy Bysshe Shelley

martedì 10 gennaio 2012

Riflessioni sul tempo


Il tempo è ciò che l'uomo è sempre intento a cercare d'ammazzare, ma che alla fine ammazza lui.
In molte lingue c'è la locuzione "ammazzare il tempo": essa descrive icasticamente la noia di chi non trova sapore nel fare e nel vivere o l'angoscia di chi è immerso in un'esistenza amara.
Il risultato è, comunque, lapidariamente espresso da una delle Definizioni del filosofo positivista Herbert Spencer sopra citata.
Alla fine il tempo, l'edax rerum, il «divoratore delle cose», come lo chiamava Ovidio, il «vorace cormorano» di Shakespeare, si presenta con la sua mannaia che si chiama morte.
E allora si recrimina perché il tempo è finito troppo presto.
Pensieri forse lugubri, ma necessari, dato che un nuovo anno è un tempo affidato alle nostre mani e, «se si ammazza il tempo – scriveva Thoreau nel suo Walden –, si ferisce l'eternità».

sabato 7 gennaio 2012

Un libro interessante



Un libro interessante, che merita di essere letto, a mio modestissimo parere.
All’apice – presunto – della società e dell’economia della conoscenza, laddove si disquisisce di preziosi capitali cognitivi da valorizzare e di evoluti strumenti di comunicazione da adottare, il campo politico e produttivo del Paese è per lo più attraversato dagli impulsi ferini di un rinnovato stato di natura hobbesiano, dalle leggi di un incravattato darwinismo sociale, ove contano null’altro che la sopravvivenza, la conservazione dell’utile e del proprio interesse materiale.
Abdicare a una simile posizione è un atto di forza, un gesto paradossale di resistenza e di autentica realizzazione di sé: è quanto compie Alfonso Brentani, con senso dell’ironia e insieme del tragico, nel libro Per oggi non mi tolgo la vita, Exòrma, Roma 2010. Debitore di Luciano Bianciardi e di Guido Morselli, di Italo Svevo, de Il libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa e soprattutto del Giuseppe Berto de Il mare oscuro, Brentani fa dire al proprio personaggio radicale, esasperato, eccessivo: «L’amore, l’amicizia, l’ambizione, la riproduzione, la vita sociale e professionale, i sorrisi e le uscite notturne e diurne, gli interessi e l’arte, le passioni, le emozioni, i titoli e i profitti, gli affetti e gli abbracci e i dolori; e io di tutto ciò non voglio più nulla, voglio l’assoluta libertà di rifiutare tutto e di non combattere per ottenere tutto ciò, voglio l’onore delle armi per obiezione di coscienza alla vita». E ancora: «Voglio il diritto al patetismo: alla sconfitta e alla rinuncia, alla debolezza e al crollo». Poche altre formulazioni narrative sono altrettanto lapidarie e icastiche nello sferrare senza mezzi termini un calcio in faccia ai tanti che, non essendo all’altezza della contraddittorietà e della complessità delle proprie vite e delle proprie azioni, sono impotenti all’autocritica, terrorizzati alla sola idea di apparire perdenti sul ring degli spiriti animali in competizione (sia esso il talk show televisivo o il mercato con i suoi player, la corsa elettorale dei candidati politici o il luogo di lavoro con le sue condizioni e i suoi obiettivi capestro, la scuola dei concorsi bloccati e truccati o l’industria culturale dei bestseller annunciati).
Per oggi non mi tolgo la vita è, in parte, l’odissea tragicomica di un individuo che tenta più volte il suicidio, fallendo senza rimedio anche in questo. «Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio», scriveva Samuel Beckett in Worstward wo (1984), capovolgendo il grido di battaglia del progresso, Avanti tutta, in un assurdo e sarcastico Peggio tutta.
Le pagine di Brentani, tuttavia, non ricercano mai l’assoluzione o la compassione da parte del lettore, e così rischiano di conquistarne – quale non voluto effetto collaterale – nientemeno che l’amore.
Costantemente afflitto da una «furia cogitativa ingovernabile», il protagonista non appartiene a quella schiera di uomini che risolvono i problemi – propri e altrui – semplicemente senza rendersi conto di incontrarli (i problemi). Anzi, il suo pensiero e il suo sentire, sin dall’età della consapevolezza, sono avvitati nell’inestirpabile inclinazione alla resa e alla rinuncia innanzi a ogni ostacolo presentato dalla vita, e nel conseguente disgusto per essere così rinunciatario e arrendevole. La percezione della colpa propria e della propria sveviana inettitudine, sono infatti la necessaria precondizione di qualsivoglia giudizio sul mondo: «Come quando ogni volta mi sento in colpa per qualcosa di cui invece dovrei burlarmi con la gente, come quando fai un favore e ti senti in colpa perché pensi che il destinatario del favore possa pensare che il favore l’hai fatto per un secondo fine e dunque pensi che si senta in obbligo e che ti disprezzi».
Il bisogno di nuda e diseconomica sincerità, nell’io narrante di Brentani, scaturisce forse – e qui s’appalesa la moralistica prima radice del suo implacabile autolesionismo – dal sentirsi ab origine vincolato agli altri, a quella dimensione sociale dell’esistenza che egli apparentemente rifugge, ma che in realtà lo inchioda a sé, lo individua, come un’istanza metafisica, come un imperativo a cui è impossibile sottrarsi: «e forse questo terrore di mettere obblighi alle persone ce l’ho perché io mi sento sempre in obbligo verso tutti e tutto, anche verso la farfalla verso cui mia nipote soffia acqua». Nel caso dell’io narrante del libro, la percezione del vincolo nei confronti dell’altro è tanto acuta da risultare insostenibile. «Quando sono con le persone», scrive Brentani, «non so mai cosa dire», e d’altro canto le persone, gli altri, nutrono un attaccamento a se stesse che al protagonista del libro appare incomprensibile: «con queste fisse della vita a tutti i costi…».
Sarebbe pertanto riduttivo accorpare il personaggio di Alfonso Brentani a quella tipologia di disadattati sociali che piangono di sé e s’acquietano nella propria inerzia, rifugiandosi in una rassegnata nicchia lavorativa per vegetare in pace, ad esempio nell’industria culturale – una condotta di vita, per altro, molto più diffusa di quanto si creda. Stigmatizzando l’attaccamento della persona alla vita, l’io narrante giudica, in realtà, una specifica figura sociale, infatti «i personalismi che diceva morselli nei politici ci sono anche di più negli intellettuali e allora se ne vadano affanculo questi intellettuali vanesi e sterili e questi della letteratura in cui lavoro e che frequento molto poco e molto di meno di quanto frequenti altri esseri umani».
La mancanza di rispetto nei confronti della sofferenza umana, inclusa quella dell’uomo che indugia in compulsivi pensieri di sottrazione al respiro, è un altro aspetto che desta il verbigerante furore della scrittura di Brentani, e che motiva il suo protagonista all’ascolto di tutti i sottogeneri della musica blackmetal: «io reagisco così perché sono debole e non ho anticorpi esistenziali ma tu ti sogneresti di dire a un malato che sta morendo oh ma che fai perché muori per questa malattia ma lo sai che tanta gente con questa malattia mica muore anzi guarisce e poi torna felice? (…) ma che minchia dici a parte che i dolori non possono mai essere confrontati perché sono soggettivi e non oggettivi come un chilo di carote puoi forse per caso dire quello ha un chilo di disperazione e non può ammazzarsi perché per ammazzarsi devono essere ammessi almeno due chili (…), per ognuno il suo dolore è il peggiore di tutti».
Le presenze vive, animate, nel fluire dei giorni del protagonista di Brentani, ci sono, anche se restano sullo sfondo, ogni volta quasi in attesa di essere appena evocate: un gruppetto di amici e di colleghi del lavoro culturale, una nipote, una madre ovviamente invadente, un cane, una dottoressa non proprio sensibile o professionale – già Franz Kafka diceva che scrivere una ricetta è più facile che parlare con un sofferente. È il rapporto con il cane a dare la misura del rapporto con le persone, a tracciare la strada di una prossemica di relazione che non è affatto ontologicamente negata all’io narrante, ma è semmai da collocare, intensificata, in un suo indeterminato futuro: «Allora il fine settimana lo prendo e lo porto in giro e anche lo coccolo e accarezzo almeno con lui non arrossisco a fare queste cose e almeno ci riesco senza che mi prendano crampi agli arti e palpitazioni disonorevoli e poi lui mi guarda con degli occhi neri giganteschi in mezzo a tutta quella lussureggianza di apparato pilifero bianco che sembra che pianga e mi fissa e emana amore puro e eterno e incondizionato e senza costi e ricatti e cose in cambio».
Inquisitore nient’affatto santo, ma triste, il narratore di Per oggi non mi tolgo la vita non è neppure incline a farsi salvare dal prossimo che gli sta accanto, né a chiedere aiuto in caso di bisogno: «tipo che sto affogando e mi decido a chiamare il bagnino forse perché odio sentirmi in debito e non sopporto il peso della gratitudine per cui sono egoista in fondo».
L’io narrante di Brentani s’accorge di ciò sulla propria pelle non appena scopre – leggendo la verità del bugiardino allegato alla scatola del farmaco (un bugiardino veritiero come una manleva di natura legale) – che tra i possibili effetti secondari dell’Efexor vi sono talvolta l’ansia e in rarissimi casi il suicidio. Anche a questo, tuttavia, v’è un pharmakon: a tenere sotto controllo il primo fastidio ci pensa il Frontal. Nel giro di pochi giorni, il cocktail shakerato dalla dottoressa porta il protagonista dritto dritto nel reparto di psichiatria, dopo notti passate a sudare e tremare, giornate di deconcentrazione e inconcludenza sul lavoro, attacchi di panico e un’accresciuta determinazione a farla finita. Quel che lo salva, in questo caso, è un istinto di sopravvivenza che si stacca da lui e che, sordo al suo ripetergli «ma fatti i cazzi tuoi!», lo induce a telefonare a un’amica e a chiedere aiuto.
In altri termini: l’anima bella dal cuore duro, intransigente, e l’ironista morale, incapace d’ancorarsi ad alcun criterio esterno di giudizio, si perdonano reciprocamente nell’angosciato campo di tensioni strutturato intorno al protagonista di Per oggi non mi tolgo la vita, e giungono a una sopportabile integrazione del sé.
V’è ora un trauma concreto – un pensiero incarnato – da cui ripartire, con il linguaggio, con l’intelligenza, con la pulsione di vita.
La recensione che ho pubblicato è la sintesi di altre varie recensioni che ho letto, e delle mie impressioni.

giovedì 5 gennaio 2012

Jekyll e Hyde ovvero la doppiezza dell'animo umano



Questo passo tratto dal noto romanzo di Stevenson mi ha sempre affascinato, incuriosito e interessato.
La domanda finale è una di quelle alle quali tanto mi piacerebbe trovare una risposta.

"Fu dal lato morale, e sulla mia stessa persona, che imparai a riconoscere la profonda e fondamentale dualità dell'uomo; mi accorsi che, delle due nature in lizza nel campo della mia coscienza, anche se potevo a buon diritto dire di essere l'una e l'altra, cosa che era dovuta soltanto al fatto di essere ambedue radicalmente; e fin dagli inizi, prima ancora che il corso delle mie scoperte scientifiche avesse cominciato a suggerirmi la più concreta possibilità di un simile miracolo, avevo imparato a vagheggiare, con la predilezione di un sogno a occhi aperti, l'idea della separazione di quegli elementi. Se ciascuno di essi, mi dicevo, potesse solo essere collocato in identità separate, la vita sarebbe alleviata di tutto quanto ha d'insopportabile: il malvagio se ne andrebbe per la sua strada, liberato dalle aspirazioni e dai rimorsi del gemello più virtuoso; e il giusto potrebbe progredire con costanza e sicurezza lungo il suo sentiero in salita, compiendo le buone cose in cui trova il suo piacere, e non più esposto all'ignominia e alla penitenza a causa di quel male che gli è estraneo. Era la maledizione del genere umano che simili incongrui sviluppi fossero tanto vincolati, che nel grembo tormentato della coscienza quei gemelli antitetici dovessero scontrarsi continuamente. Come fare, dunque, a dissociarli?"

Qualcuno ha per caso delle idee in proposito?

mercoledì 4 gennaio 2012

Nella nebbia


Pubblico questa poesia, Nella nebbia di Herman Hesse, che un'amica mi ha gentilmente segnalato.

Molto bello questo elogio alla nebbia!

Strano, vagare nella nebbia!
E’ solo ogni cespuglio ed ogni pietra,
né gli alberi si scorgono tra loro,
ognuno è solo.
Pieno di amici mi appariva il mondo
quando era la mia vita ancora chiara;
adesso che la nebbia cala
non ne vedo più alcuno.
Saggio non è nessuno
che non conosca il buio
che lieve ed implacabile
lo separa da tutti.
Strano, vagare nella nebbia!
Vivere è solitudine.
Nessun essere conosce l’altro
ognuno è solo.

martedì 3 gennaio 2012

Giornata di nebbia



Da stamattina la nebbia è scesa sul mio paesello e il paesaggio è diventato sfumato.
Le case, le strade, la campagna: tutto avvolto da questo leggero mantello di goccioline d'acqua.

Mi piace la nebbia.
Tutto sembra più soffice e lieve, i rumori paiono attutiti e mi fa tornano alla mente fredde giornate d'inverno della mia infanzia, quando la mia nonna cuciva vicino alla stufa e io me ne stavo sul divano a guardare fuori dalla finestra.

Ha anche un suo odore la nebbia; amarognolo e tuttavia gradevole.

Molti penseranno che si sta molto meglio al sole e al caldo.
Non è sbagliato; le giornate serene hanno i loro pregi, ma anche avvolti in questa soffice sciarpa di nebbia si sta bene. 

Mi fa tornare alla mente questa poesia di Ungaretti:

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
Napoli, il 26 dicembre 1916

I sentimenti di intimità e la struggente commozione che si possono provare in una giornata di inverno sono questi, e rendono più lievi i mesi freddi e grigi.

domenica 1 gennaio 2012

Propositi di inizio anno



"La guerra che verrà
non è la prima.

Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell'ultima
c'erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente faceva la fame.

Fra i vincitori faceva la fama la povera gente ugualmente".

Bertolt Brecht - "La guerra che verrà"

Quando penso a una guerra non mi riferisco solo ai conflitti armati, ma anche alle piccole e tante battaglie che tutti di noi combattiamo ogni giorno, per i motivi più disparati.
E quando ci tocca di combattere una guerra, anche piccola, un pò di amaro (di fame, direbbe Bertolt Brecht) in bocca ci resta sempre.

Per questo non mi va più di combattere nessuna guerra.