sabato 7 gennaio 2012

Un libro interessante



Un libro interessante, che merita di essere letto, a mio modestissimo parere.
All’apice – presunto – della società e dell’economia della conoscenza, laddove si disquisisce di preziosi capitali cognitivi da valorizzare e di evoluti strumenti di comunicazione da adottare, il campo politico e produttivo del Paese è per lo più attraversato dagli impulsi ferini di un rinnovato stato di natura hobbesiano, dalle leggi di un incravattato darwinismo sociale, ove contano null’altro che la sopravvivenza, la conservazione dell’utile e del proprio interesse materiale.
Abdicare a una simile posizione è un atto di forza, un gesto paradossale di resistenza e di autentica realizzazione di sé: è quanto compie Alfonso Brentani, con senso dell’ironia e insieme del tragico, nel libro Per oggi non mi tolgo la vita, Exòrma, Roma 2010. Debitore di Luciano Bianciardi e di Guido Morselli, di Italo Svevo, de Il libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa e soprattutto del Giuseppe Berto de Il mare oscuro, Brentani fa dire al proprio personaggio radicale, esasperato, eccessivo: «L’amore, l’amicizia, l’ambizione, la riproduzione, la vita sociale e professionale, i sorrisi e le uscite notturne e diurne, gli interessi e l’arte, le passioni, le emozioni, i titoli e i profitti, gli affetti e gli abbracci e i dolori; e io di tutto ciò non voglio più nulla, voglio l’assoluta libertà di rifiutare tutto e di non combattere per ottenere tutto ciò, voglio l’onore delle armi per obiezione di coscienza alla vita». E ancora: «Voglio il diritto al patetismo: alla sconfitta e alla rinuncia, alla debolezza e al crollo». Poche altre formulazioni narrative sono altrettanto lapidarie e icastiche nello sferrare senza mezzi termini un calcio in faccia ai tanti che, non essendo all’altezza della contraddittorietà e della complessità delle proprie vite e delle proprie azioni, sono impotenti all’autocritica, terrorizzati alla sola idea di apparire perdenti sul ring degli spiriti animali in competizione (sia esso il talk show televisivo o il mercato con i suoi player, la corsa elettorale dei candidati politici o il luogo di lavoro con le sue condizioni e i suoi obiettivi capestro, la scuola dei concorsi bloccati e truccati o l’industria culturale dei bestseller annunciati).
Per oggi non mi tolgo la vita è, in parte, l’odissea tragicomica di un individuo che tenta più volte il suicidio, fallendo senza rimedio anche in questo. «Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio», scriveva Samuel Beckett in Worstward wo (1984), capovolgendo il grido di battaglia del progresso, Avanti tutta, in un assurdo e sarcastico Peggio tutta.
Le pagine di Brentani, tuttavia, non ricercano mai l’assoluzione o la compassione da parte del lettore, e così rischiano di conquistarne – quale non voluto effetto collaterale – nientemeno che l’amore.
Costantemente afflitto da una «furia cogitativa ingovernabile», il protagonista non appartiene a quella schiera di uomini che risolvono i problemi – propri e altrui – semplicemente senza rendersi conto di incontrarli (i problemi). Anzi, il suo pensiero e il suo sentire, sin dall’età della consapevolezza, sono avvitati nell’inestirpabile inclinazione alla resa e alla rinuncia innanzi a ogni ostacolo presentato dalla vita, e nel conseguente disgusto per essere così rinunciatario e arrendevole. La percezione della colpa propria e della propria sveviana inettitudine, sono infatti la necessaria precondizione di qualsivoglia giudizio sul mondo: «Come quando ogni volta mi sento in colpa per qualcosa di cui invece dovrei burlarmi con la gente, come quando fai un favore e ti senti in colpa perché pensi che il destinatario del favore possa pensare che il favore l’hai fatto per un secondo fine e dunque pensi che si senta in obbligo e che ti disprezzi».
Il bisogno di nuda e diseconomica sincerità, nell’io narrante di Brentani, scaturisce forse – e qui s’appalesa la moralistica prima radice del suo implacabile autolesionismo – dal sentirsi ab origine vincolato agli altri, a quella dimensione sociale dell’esistenza che egli apparentemente rifugge, ma che in realtà lo inchioda a sé, lo individua, come un’istanza metafisica, come un imperativo a cui è impossibile sottrarsi: «e forse questo terrore di mettere obblighi alle persone ce l’ho perché io mi sento sempre in obbligo verso tutti e tutto, anche verso la farfalla verso cui mia nipote soffia acqua». Nel caso dell’io narrante del libro, la percezione del vincolo nei confronti dell’altro è tanto acuta da risultare insostenibile. «Quando sono con le persone», scrive Brentani, «non so mai cosa dire», e d’altro canto le persone, gli altri, nutrono un attaccamento a se stesse che al protagonista del libro appare incomprensibile: «con queste fisse della vita a tutti i costi…».
Sarebbe pertanto riduttivo accorpare il personaggio di Alfonso Brentani a quella tipologia di disadattati sociali che piangono di sé e s’acquietano nella propria inerzia, rifugiandosi in una rassegnata nicchia lavorativa per vegetare in pace, ad esempio nell’industria culturale – una condotta di vita, per altro, molto più diffusa di quanto si creda. Stigmatizzando l’attaccamento della persona alla vita, l’io narrante giudica, in realtà, una specifica figura sociale, infatti «i personalismi che diceva morselli nei politici ci sono anche di più negli intellettuali e allora se ne vadano affanculo questi intellettuali vanesi e sterili e questi della letteratura in cui lavoro e che frequento molto poco e molto di meno di quanto frequenti altri esseri umani».
La mancanza di rispetto nei confronti della sofferenza umana, inclusa quella dell’uomo che indugia in compulsivi pensieri di sottrazione al respiro, è un altro aspetto che desta il verbigerante furore della scrittura di Brentani, e che motiva il suo protagonista all’ascolto di tutti i sottogeneri della musica blackmetal: «io reagisco così perché sono debole e non ho anticorpi esistenziali ma tu ti sogneresti di dire a un malato che sta morendo oh ma che fai perché muori per questa malattia ma lo sai che tanta gente con questa malattia mica muore anzi guarisce e poi torna felice? (…) ma che minchia dici a parte che i dolori non possono mai essere confrontati perché sono soggettivi e non oggettivi come un chilo di carote puoi forse per caso dire quello ha un chilo di disperazione e non può ammazzarsi perché per ammazzarsi devono essere ammessi almeno due chili (…), per ognuno il suo dolore è il peggiore di tutti».
Le presenze vive, animate, nel fluire dei giorni del protagonista di Brentani, ci sono, anche se restano sullo sfondo, ogni volta quasi in attesa di essere appena evocate: un gruppetto di amici e di colleghi del lavoro culturale, una nipote, una madre ovviamente invadente, un cane, una dottoressa non proprio sensibile o professionale – già Franz Kafka diceva che scrivere una ricetta è più facile che parlare con un sofferente. È il rapporto con il cane a dare la misura del rapporto con le persone, a tracciare la strada di una prossemica di relazione che non è affatto ontologicamente negata all’io narrante, ma è semmai da collocare, intensificata, in un suo indeterminato futuro: «Allora il fine settimana lo prendo e lo porto in giro e anche lo coccolo e accarezzo almeno con lui non arrossisco a fare queste cose e almeno ci riesco senza che mi prendano crampi agli arti e palpitazioni disonorevoli e poi lui mi guarda con degli occhi neri giganteschi in mezzo a tutta quella lussureggianza di apparato pilifero bianco che sembra che pianga e mi fissa e emana amore puro e eterno e incondizionato e senza costi e ricatti e cose in cambio».
Inquisitore nient’affatto santo, ma triste, il narratore di Per oggi non mi tolgo la vita non è neppure incline a farsi salvare dal prossimo che gli sta accanto, né a chiedere aiuto in caso di bisogno: «tipo che sto affogando e mi decido a chiamare il bagnino forse perché odio sentirmi in debito e non sopporto il peso della gratitudine per cui sono egoista in fondo».
L’io narrante di Brentani s’accorge di ciò sulla propria pelle non appena scopre – leggendo la verità del bugiardino allegato alla scatola del farmaco (un bugiardino veritiero come una manleva di natura legale) – che tra i possibili effetti secondari dell’Efexor vi sono talvolta l’ansia e in rarissimi casi il suicidio. Anche a questo, tuttavia, v’è un pharmakon: a tenere sotto controllo il primo fastidio ci pensa il Frontal. Nel giro di pochi giorni, il cocktail shakerato dalla dottoressa porta il protagonista dritto dritto nel reparto di psichiatria, dopo notti passate a sudare e tremare, giornate di deconcentrazione e inconcludenza sul lavoro, attacchi di panico e un’accresciuta determinazione a farla finita. Quel che lo salva, in questo caso, è un istinto di sopravvivenza che si stacca da lui e che, sordo al suo ripetergli «ma fatti i cazzi tuoi!», lo induce a telefonare a un’amica e a chiedere aiuto.
In altri termini: l’anima bella dal cuore duro, intransigente, e l’ironista morale, incapace d’ancorarsi ad alcun criterio esterno di giudizio, si perdonano reciprocamente nell’angosciato campo di tensioni strutturato intorno al protagonista di Per oggi non mi tolgo la vita, e giungono a una sopportabile integrazione del sé.
V’è ora un trauma concreto – un pensiero incarnato – da cui ripartire, con il linguaggio, con l’intelligenza, con la pulsione di vita.
La recensione che ho pubblicato è la sintesi di altre varie recensioni che ho letto, e delle mie impressioni.

1 commento:

  1. Interessante rielaborazione, molto approfondita e ricca di citazioni. Ottimo lavoro!

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